SUL NON POTERSI FERMARE
Il punto di partenza di questo lavoro è un disegno emerso nel corso di un trattamento. Non come schema teorico né come modello esplicativo, ma come tentativo di dare forma a qualcosa che insisteva nel discorso di una paziente. Un disegno semplice: una linea ondulata attraversata da una linea retta. Questo schema ha accompagnato il lavoro clinico come supporto di lettura, consentendomi di isolare alcuni nodi ricorrenti del caso. In particolare, il rapporto del soggetto con il suo desiderio e con l’impossibilità di sostenere una posizione di fronte ad esso. Non ha valore generale e non pretende di rappresentare un andamento universale, ma si radica interamente nella singolarità del discorso ascoltato.
La linea ondulata la chiamerei “vie”, mantenendo il termine francese. Vie indica la vita, ma richiama anche la via, il percorso. Questa ambivalenza permette di tenere insieme due dimensioni che nella clinica risultano inseparabili: l’esperienza del vivere e il modo in cui ciascun soggetto vi si muove, vi si perde, vi ritorna. In psicoanalisi, parlare di vita non significa riferirsi a un dato oggettivo o misurabile. Quando utilizziamo termini come vita, desiderio o sofferenza, ci muoviamo sempre nel campo del significante. Il loro senso non è mai fissato una volta per tutte, ma si costituisce nel dire del soggetto. È a partire da questa premessa che il disegno acquista il suo valore clinico.
Nel corso del trattamento, la paziente afferma di sentirsi più vicina al proprio desiderio nei momenti in cui la sua vita appare relativamente statica. Non utilizza questo termine in modo concettuale, ma il senso del suo discorso va in questa direzione. Racconta che quando tutto sembra funzionare (un lavoro sufficientemente stabile, una relazione, una certa continuità) emerge qualcosa che lei stessa riconosce come un avvicinamento a ciò che desidera.
Questo avvicinamento, tuttavia, non riesce a essere sostenuto. Ogni volta che la vita assume una forma più stabile, la paziente sente il bisogno di rompere quella condizione. Nel suo racconto tornano scelte che lei stessa definisce sbagliate: relazioni dolorose, cambi improvvisi di lavoro, interruzioni di percorsi iniziati. Scelte che, a posteriori, riconosce come già destinate a farla stare male, ma che rispondono al tempo stesso a una necessità soggettiva.
Dal punto di vista della struttura del desiderio, questo movimento in parte non sorprende. Il desiderio difatti non è qualcosa che possa essere colmato né un oggetto che si possa raggiungere una volta per tutte. Non è orientato alla soddisfazione, ma alla mancanza. Ed è proprio la stabilità a costringere la paziente a confrontarsi con questo punto. Stare ferma significa esporsi al fatto che ciò che ha non la completa. Significa trovarsi di fronte alle scelte non fatte, alle possibilità perdute, a un desiderio che non trova una risposta rassicurante. Di fronte a questo, la fuga diventa una soluzione possibile. La fuga può assumere forme diverse. Talvolta è una fuga concreta, come cambiare città, lavoro o relazione. Altre volte è una fuga soggettiva, che consiste nel rimettersi in situazioni di sofferenza capaci di occupare l’intero campo dell’esperienza. In entrambi i casi, si tratta di un modo per evitare l’incontro con il desiderio nella sua dimensione più radicale.
A un certo punto del percorso, la paziente formula un’affermazione che diventa centrale. Dice di sentirsi viva solo quando sta male. Questo passaggio non va inteso in senso romantico o esistenziale, ma come indicazione clinica di un legame tra sofferenza e godimento. Lo stare male non è semplicemente subito, ma assume il valore di una posizione soggettiva, che consente di sottrarsi all’angoscia che emerge quando il desiderio si avvicina. In questo senso, la sofferenza non appare come l’opposto della vita, ma come una modalità particolare di godimento. Una modalità che permette di evitare il vuoto aperto dal desiderio, colmandolo con il peso del dolore.
Tornando allo schema, la linea ondulata rappresenta i percorsi di vita, con le loro oscillazioni. Non si tratta di una lettura in termini di instabilità dell’umore o di polarità affettive. Non siamo nel registro diagnostico. L’oscillazione indica piuttosto l’impossibilità di fermarsi, l’impossibilità di sostenere una posizione che esponga il soggetto alla mancanza.Quando sta bene emerge l’angoscia. Quando sta male emerge la necessità di un cambiamento. Ciò che resta costante è il movimento. La staticità è ciò che non può essere abitato.
È a questo punto che si inserisce la seconda linea dello schema, che propongo di chiamare “linea del dire”. Essa corrisponde al percorso analitico e si configura come una linea solo apparentemente dritta, fatta di ripetizione e regolarità: lo stesso luogo, la stessa cadenza, lo stesso dispositivo. Questa ripetizione non va intesa come garanzia di stabilità, ma come la condizione perché qualcosa del dire possa tornare. In questo senso, la linea del dire introduce un punto di continuità simbolica, un luogo in cui il soggetto può ritrovare il proprio dire, ascoltarlo e sostarvi.
È infatti nella ripetizione che alcuni significanti si isolano, insistono e acquistano rilievo. Nel corso delle sedute, alcune parole tornano, certi modi di dire si ripresentano, segnando dei punti di emergenza nel discorso del soggetto. È proprio su questi punti che l’intervento analitico trova il suo orientamento: non si tratta di spiegare o interpretare, ma di operare dei rimandi e dei tagli che consentano al soggetto di incontrare qualcosa del proprio discorso. Questo lavoro può essere pensato come una serie di punti di luce che si accendono lungo il dire, punti che, nella corsa della vita, tenderebbero a disperdersi, ma che nel dispositivo analitico trovano invece un luogo in cui emergere e mantenersi.
È in questa prospettiva che si colloca un episodio delle prime sedute, in cui un taglio è stato operato su una parola che la paziente ripeteva con particolare insistenza. A partire da quel rimando si è aperta una domanda nuova: se quel desiderio che sembrava sfuggire continuamente fosse davvero il suo. È qui che può iniziare un percorso analitico, non nel momento in cui il soggetto trova una risposta, ma quando diventa possibile sostenere una domanda sul desiderio come desiderio proprio.
Non una soluzione, dunque, ma un’apertura: l’inizio di qualcosa che prende forma proprio nel mantenere aperta quella domanda.