Incontro c/o associazione meditrina - 30/11/25
Qualche weekend fa una collega mi ha chiesto di tenere un incontro presso un’associazione sul tema della comunicazione autentica e dello spazio psicologico. È stato uno di quei momenti in cui il confronto dal vivo apre piste che non avevi previsto, in cui le parole trovano una forma diversa proprio grazie alle persone che hai davanti.
Per questo mi è sembrato naturale portare qui, in una versione più leggibile ma fedele nello spirito, ciò che è emerso durante quell’incontro: pensieri, esempi, riflessioni che sono nati parlando insieme e che credo possano avere un senso anche al di fuori di quella stanza.
LA PAROLA E LO SPAZIO PSICOLOGICO: IL VALORE DELLA COMUNICAZIONE AUTENTICA
Principalmente io lavoro con preadolescenti e adolescenti e, quando mi è stato chiesto di fare questo incontro, avevo inizialmente pensato a un tema che conoscevo già, qualcosa che avevo presentato in un altro contesto e che aveva suscitato interesse. Lo ammetto, è la prima volta che lo dico: avevo praticamente tutto pronto. Poi, come spesso succede, accade una piccola cosa che cambia i piani. Questo cambiamento è nato mentre ero sui mezzi. Per rilassarmi, come credo faccia la maggior parte di noi, scrollavo sui social. A un certo punto mi è comparso un video che mi ha colpito moltissimo. Non riuscendo a salvarlo, ho registrato lo schermo e ho capito immediatamente che avrei voluto aprire il nostro incontro proprio con quel video. Da lì è cambiato tutto: le slide, il testo, l’impostazione.
Il video è un TikTok in cui una ragazza fa ascoltare un vocale di suo padre. Lui le dice più o meno così: “Ciao amore. Ho parlato con la mamma e mi ha detto che hai espresso la volontà di andare a parlare con qualcuno. Ti capisco, e si capisce. Speriamo, Giorgia, che questo tuo disagio… perdonami se non lo definisco bene… sia qualcosa che si possa risolvere. Non ti fare troppi problemi, non crearti problemi quando non ci sono, però è giusto che tu vada, se senti questa necessità. Io e la mamma siamo qui e ti appoggiamo. Brava, fai bene a parlarne, perché è la cosa migliore invece che tenerti tutto dentro. Un bacio”.
La ragazza era molto orgogliosa di questo messaggio, del sostegno ricevuto, e ciò mi ha fatto pensare a un punto centrale: quando parliamo dello spazio psicologico e della possibilità di mettere in parola ciò che viviamo, ci sono tanti piccoli tabù che spesso non riconosciamo nemmeno. Li diamo per scontati.
Per guidare questo incontro, mi sono lasciato condurre da tre frasi: due di psicoanalisti e una di un filosofo del secolo scorso. Non per fare teoria, ma perché mi aiutano a toccare dei punti fondamentali quando parliamo di dialogo e di parola. Alla fine ci sarà anche uno spazio di domande anonime; sui vostri posti ci sono dei foglietti che raccoglieremo senza nomi.
La prima frase è di Winnicott: “Ciò di cui un bambino ha bisogno non è un genitore perfetto, ma un ambiente che gli permetta di essere se stesso”. Questa frase, messa accanto al vocale del padre, dice molto. Spesso si pensa che la comunicazione in famiglia debba essere perfetta. Madre e figlio si dicono tutto, partner si dicono tutto. Ma nella realtà non è così e quando emerge che non tutto viene condiviso, soprattutto quando un ragazzo dice di voler parlare con uno psicologo, molti genitori vivono questo come un fallimento. “Perché non me lo dice? Perché non gli basto? Dove ho sbagliato?”. Succede davvero spesso. Nei primi incontri con i genitori, queste domande emergono continuamente. Se poi c’è un altro figlio che non ha chiesto un aiuto esterno, il confronto diventa ancora più pesante.
Winnicott, invece, ci ricorda che essere un buon genitore significa accettare di essere mancanti. La parola “mancanza” nella nostra cultura è vissuta come difetto, come errore, come qualcosa da colmare. In realtà è una condizione umana naturale. Nel vocale il padre lo dimostra in modo semplice e spontaneo: “Non so se uso le parole giuste, non so se lo sto definendo bene”. È un’ammissione di non sapere tutto ed è preziosa. Perché riconoscere di non sapere tutto non è un limite, è la base di ogni relazione viva.
Questo discorso vale per tutti, non solo per i genitori. Vale anche per i partner. Ho seguito una signora il cui marito è entrato in crisi quando lei ha iniziato un percorso di terapia: “Perché non parla con me? Cosa manca in me?”. Ma accettare che una persona senta il bisogno di uno spazio esterno non è un’offesa. È un atto di crescita. E spesso, proprio questa concessione, questa libertà, permette di stare meglio anche nella relazione.
A questo proposito aggiungo un dettaglio tecnico, ma importante: quando un minorenne entra in terapia, il consenso informato lo firmano i genitori, certo. Ma il diritto alla privacy, alla riservatezza, resta al paziente. Anche se è minorenne. L’Ordine degli Psicologi tutela con forza questa cosa: ciò che viene detto nello studio appartiene alla persona che parla. Lo spazio terapeutico è suo.
La seconda frase che voglio portare è di Martin Buber: “Il vero incontro con l’altro avviene quando io non pretendo di possedere la verità, ma sono disposto a imparare”. Questa frase spiega perché parlare davvero non significa convincere l’altro, prevalere, ma mettersi in ascolto. Molti si aspettano che lo psicologo dia soluzioni, consigli, indicazioni precise. “Sono andato dallo psicologo ma non mi ha detto cosa devo fare”, me lo sento dire spesso. Ma la psicoterapia non funziona così. Non è “ti spiego la verità su di te”, ma “cammino con te mentre tu la scopri”.
Nel vocale del padre si sente molto bene questa dinamica. Da un lato c’è il suo desiderio di proteggere, di rassicurare. Dall’altro c’è la capacità di lasciare andare la propria posizione per accogliere quella della figlia. Accetta che lei abbia un bisogno diverso dal suo. Questo è ciò che rende possibile un dialogo autentico.
La terza frase è di Carl Rogers: “L’obiettivo della psicoterapia non è cambiare l’altro, ma fornire un ambiente in cui il cambiamento può avvenire”. E questa è forse la parte più difficile da far capire. Viviamo in un periodo in cui si pensa che lo psicologo debba fornire esercizi, liste di cose da fare, soluzioni immediate. Ma il cambiamento non nasce da un’indicazione esterna. Nasce dalla possibilità di avere uno spazio in cui ascoltarsi davvero. Anche il semplice fatto di venire in studio, una volta a settimana, di ritagliarsi quel tempo, di fare quello sforzo, anche economico, fa parte del processo. Prendersi cura di sé comporta sempre un investimento.
Spesso dico che anche una semplice lista della spesa detta in seduta può avere un senso, perché è stata portata lì, in quello spazio, davanti a quella persona. Se quella cosa emerge in quello spazio, ha un significato. Non serve che sia un trauma o un grande racconto. A volte il cambiamento comincia da dettagli minuscoli.
E qui c’è un altro punto, che riguarda tutti: amici, partner, familiari. Sono fondamentali per il nostro benessere, ma il dialogo che avviene nello spazio terapeutico è diverso. È un dialogo privo di giudizio. Non positivo, non negativo. Se racconti a un amico che hai tradito, riceverai una reazione immediata, morale. In terapia no. In terapia si esplora cosa significa per te, perché è successo, cosa ti suscita. È uno spazio dove non si punta il dito, né in un senso né nell’altro.
Un’altra cosa che vedo spesso è il tema della colpa. Nella nostra cultura, quando qualcosa non va, qualcuno deve essere colpevole. Se un figlio sta male, il genitore si sente colpevole. Se un giovane soffre, si sente colpevole perché non vuole far preoccupare i genitori. E questo meccanismo di colpa blocca tutto. Preferisco un’altra prospettiva: stare male non è una colpa. È una responsabilità. È come quando abbiamo una pianta, un animale, qualcosa a cui teniamo: ce ne prendiamo cura. A me, per esempio, hanno regalato una pianta a Natale. Io non amo le piante perché so che muoiono sempre. Ma quella persona era importante, quindi mi sono messo a cercare informazioni, a capire come accudirla. E, incredibilmente, la pianta è ancora viva. Questo vale anche per noi stessi. Se ci teniamo, ci prendiamo cura di ciò che sentiamo.
Vorrei concludere con un’ultima osservazione. Negli ultimi anni ho lavorato in uno sportello scolastico in un liceo e ricordo una ragazza che chiedeva sempre l’appuntamento alle otto del mattino, prima dell’inizio delle lezioni, per non farsi vedere dai compagni. Una volta seduta, la sua prima domanda fu: “Qualcuno sa che sono qui? Lo dicono ai professori?”. La paura del giudizio era più grande del disagio che la portava a venire da me. Ed è paradossale, perché viviamo in una società che a parole sostiene l’importanza della salute mentale, si dedica mesi tematici, campagne, slogan sul “chiedere aiuto”, ma poi, quando dobbiamo ammettere che noi stessi possiamo trovarci in una posizione di fragilità, facciamo molta più fatica.
E forse il senso di questo incontro è proprio questo: normalizzare il fatto che chiedere aiuto non è un fallimento, non è una colpa, non è un segno di debolezza. È un gesto di cura verso se stessi e, inevitabilmente, anche verso chi ci sta accanto. Se riusciamo a guardare così lo spazio della parola, allora quello spazio può davvero diventare un luogo in cui qualcosa accade.
Pensiamo anche a situazioni molto pratiche. Quando una persona deve assentarsi dal lavoro perché mentalmente non ce la fa, ottenere un permesso o un certificato non è così semplice. Per un mal di denti ci credono tutti, per un malessere psicologico molto meno. A scuola succede lo stesso: è più facile dire “sto male”, inteso come malessere fisico, che provare a spiegare qualcosa di più profondo, come “faccio fatica a stare in classe, mi sento inadeguata, mi sento esclusa, mi trattano male”. È curioso, perché sono parole che usiamo spesso, ma che diventano difficilissime da pronunciare quando ci riguardano davvero. E anche in questi casi ottenere un permesso, un certificato o semplicemente il riconoscimento del proprio disagio diventa complicato.
Prometto di tornare alla primissima slide, perché il sottotitolo che ho voluto lasciare dall’inizio alla fine era “il valore della comunicazione autentica”. Non l’ho mai tolto, anche se tutto il resto della presentazione è cambiato. Perché parlare di comunicazione autentica significa ricordarsi una cosa semplice ma fondamentale: una parola è autentica quando viene rispettata. E viene rispettata quando non la riempiamo prima ancora che l’altro la pronunci, quando non decidiamo noi cosa significhi, quando non la sovrapponiamo alla nostra. Vale quando siamo noi a parlare e quando è l’altro a farlo. Vale soprattutto quando siamo noi a chiedere aiuto. Tendo sempre a portare esempi degli altri, ma è vero anche per me, per ognuno di noi. La richiesta di aiuto non ha età. Certo, possiamo immaginare che i vent’anni siano il periodo ideale per iniziare un percorso, ma non è così: si lavora con persone di tutte le età, anche molto avanti negli anni. Non è questo il punto.
Il punto è che una comunicazione autentica può avvenire solo quando ci mettiamo davvero in ascolto, lontani dalla tentazione di definire, di interpretare subito, di giudicare. Le tre frasi con cui abbiamo attraversato questo incontro vanno tutte in questa direzione e secondo me valgono soprattutto nei momenti in cui qualcuno ci chiede aiuto, ma anche quando istintivamente saremmo portati a giudicare. Capita a tutti, nessuno escluso. “Eh vabbè, avrà chiesto un certificato falso”, oppure “esagera, ai miei tempi non esisteva questa sensibilità”. Sono frasi che abbiamo sentito e pensato tutti almeno una volta. Ma prima di arrivare lì, forse conviene fare un passo indietro.
Lo stesso vale quando siamo noi ad avere bisogno. Non è semplice nemmeno allora. Quando io stesso mi sono trovato, anni fa, nella posizione di dover chiedere aiuto, sentivo forte la paura del giudizio. Non era ancora così normale parlarne come forse lo è oggi. Ed è proprio per questo che interventi come questo, momenti come questo, occasioni di confronto e condivisione, secondo me sono importanti: perché se non mettiamo in parola certe cose, è facile che ci scivolino subito addosso e spariscano.
Allo stesso tempo, devo dire che c’è qualcosa che mi dà speranza. Le nuove generazioni, parlo di chi è nato quando io ero già più grande, dal 2008 in avanti, mi sembrano più consapevoli della propria salute mentale. È vero, qualcuno la usa come scusa, è inevitabile, ma molti di loro hanno una sensibilità nuova, sanno riconoscere quando hanno bisogno, sanno chiedere aiuto. E questo è un cambiamento enorme.
E così, andando davvero verso la conclusione, mi piace pensare che in qualsiasi contesto ci troveremo, nella vita adulta, nel lavoro, nelle relazioni, potrà capitarci di avere un amico o un’amica che verrà a raccontarci qualcosa di delicato. In quei momenti vale la pena ricordarsi tutto questo: che una comunicazione autentica è un valore, che un dialogo vero è possibile solo se facciamo spazio alla parola. Un po’ come quando vogliamo invitare qualcuno a casa: un posto a sedere lo troviamo sempre. E allora, citando una grande opera italiana, “aggiungi un posto a tavola”.
Aggiungiamo un posto per la parola, per la fragilità, per la possibilità di essere ascoltati. Per anni questo spazio è mancato. È il mio augurio: che impariamo a crearlo, a difenderlo e a riconoscerlo.
E ora, come ho detto anche in quell’incontro, lascio volentieri lo spazio alle domande.