Specchio, specchio delle mie brame: riscoprire il sé al di là del confronto

«Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?»
Non credo che la matrigna di Biancaneve avrebbe mai pronunciato la frase che oggi, invece, molti di noi potrebbero rivolgere al proprio riflesso:
«Specchio, specchio delle mie brame, perché mi fai vedere solo ciò che mi manca?»

Sempre più spesso, nel mio lavoro clinico, incontro persone che faticano a guardarsi davvero. Non parlo solo di pazienti che soffrono per il giudizio estetico o per l’immagine corporea, ma di uomini e donne che sentono il bisogno costante di misurarsi, di confrontarsi, di capire se “vanno bene”. Viviamo immersi in una cultura che alimenta il confronto continuo: su ciò che abbiamo, su ciò che mostriamo e su ciò che siamo. Ma quando lo sguardo verso l’altro diventa l’unico modo per definirci, rischiamo di smarrire la capacità di guardarci con i nostri occhi.

Ricordo un paziente, un uomo, che durante un colloquio mi disse: «Per tutta la vita ho avuto bisogno di confrontarmi con gli altri. Solo così capivo se andavo bene».
Mi colpì l’uso della parola bisogno. Non desiderio, ma bisogno, come se senza quel metro esterno non potesse esistere un senso di sé. Il confronto, per lui, era diventato la bussola attraverso cui orientare ogni aspetto della vita: i risultati accademici, la prestanza fisica, le relazioni sentimentali. Perfino la qualità delle donne che aveva al suo fianco diventava un parametro di autovalutazione.

Potremmo giudicarlo o comprenderlo, ma credo sia più utile fermarsi a osservare il fenomeno. Perché dietro questo modo di pensarsi non c’è solo narcisismo o insicurezza, c’è qualcosa di più profondo: la difficoltà a conoscersi, a riconoscersi, a costruire un proprio criterio interno di valore.

Come scrive Leon Festinger, il padre della teoria del confronto sociale, l’essere umano ha un impulso naturale a valutare se stesso in relazione agli altri. Tuttavia, quando questa spinta diventa l’unico strumento per misurarsi, rischiamo di delegare completamente all’altro la conoscenza di chi siamo.

Ogni volta che ci chiediamo, anche implicitamente, se piacciamo, se valiamo, se siamo “abbastanza”, lasciamo che sia l’altro a definire il nostro valore. È come se lo specchio riflettesse non più la nostra immagine, ma l’opinione altrui.
Non è un processo consapevole, né necessariamente colpevole. Spesso deriva da lontano, da esperienze infantili in cui il confronto era la lingua affettiva con cui abbiamo imparato a misurarci.
Frasi come “se fossi un po’ più come lui”, “guarda tua sorella com’è brava”, o “vedi, lui è magro perché si impegna” sembrano innocue, ma tracciano un solco profondo: quello della paura di non essere mai abbastanza.

Cresciamo così, abituati a guardarci attraverso uno specchio che riflette l’immagine dell’altro. Finiamo per temere l’autenticità, per nascondere le parti più vere di noi perché temiamo che non vengano accettate.

Essere se stessi può far paura. Significa mostrarsi anche nelle fragilità, nei limiti, nei desideri che non corrispondono alle aspettative esterne. Carl Rogers, uno dei grandi maestri della psicologia umanistica, sosteneva che «accettare se stessi è il prerequisito per qualsiasi cambiamento reale».
Ma per accettarsi bisogna prima conoscersi, e questo implica un atto di coraggio: quello di sostenere il proprio sguardo senza aspettarsi un giudizio, di restare nello specchio anche quando ciò che vediamo non è perfetto.

Imparare a conoscersi è un processo lento. Richiede tempo, ascolto, a volte anche la sospensione del confronto. Quando smettiamo di chiedere all’altro chi siamo, iniziamo a scoprire qualcosa di nuovo: una presenza interna che non ha bisogno di essere misurata.
E allora lo specchio, che per anni ci ha restituito solo paragoni e mancanze, può tornare a essere un alleato.

Non più un giudice, ma un compagno di viaggio che ci rimanda la verità del nostro volto, anche nelle sue imperfezioni.

Forse, a quel punto, potremmo riscrivere la formula magica in un modo nuovo:
Specchio, specchio delle mie brame, oggi mi vedo per ciò che sono, non per ciò che agli altri pare.”

Indietro
Indietro

Incontro c/o associazione meditrina - 30/11/25

Avanti
Avanti

TRA UN ROBOTTINO E DEI PINGUINI: LA PARTE BUONA CHE NON SAPPIAMO SPIEGARE