TRA UN ROBOTTINO E DEI PINGUINI: LA PARTE BUONA CHE NON SAPPIAMO SPIEGARE
C’è qualcosa, nell’essere umano, che continua a sorprendermi ogni volta: la nostra capacità di provare affetto anche per ciò che non è vivo, di stabilire legami emotivi con oggetti o entità artificiali. È come se, dentro di noi, esistesse un istinto antico e potentissimo che ci spinge a cercare connessione ovunque, anche dove la logica direbbe che non può esserci.
Mi capita spesso di notarlo, sui social o nella vita di tutti i giorni. Persone che parlano ai propri dispositivi elettronici, che si preoccupano per una pianta appassita o che provano nostalgia per un oggetto rotto. Sembra una piccola stranezza, eppure racconta molto della nostra natura.
Uno degli esempi più curiosi è quello dei robot che puliscono per terra. Ho scoperto che esiste un’intera comunità di persone che li possiede e che, come prima cosa, dà loro un nome. Quando il robottino si rompe, molti raccontano di provare un senso autentico di tristezza, quasi come se avessero perso un piccolo amico.
Ricordo un video tenerissimo in cui un bambino chiedeva al suo papà se fosse possibile fare in modo che il nuovo robottino avesse la stessa “coscienza” di quello vecchio, come se potesse davvero tornare a essere lui. In quelle parole, dette con l’innocenza di un bambino, si nasconde un pensiero profondo: il bisogno di continuità emotiva, di riconoscere qualcosa di sé anche in ciò che non è umano.
Un altro episodio che mi è rimasto impresso arriva da un documentario del National Geographic. Gli operatori avevano una regola ferrea: non intervenire mai negli eventi naturali, osservare soltanto. Ma un giorno si trovarono davanti a un gruppo di pinguini rimasti intrappolati in una conca di ghiaccio. Avrebbero potuto morire lì, senza possibilità di risalire. Di fronte a quella scena, la regola si sgretolò. Gli operatori decisero di aiutarli, scavando un piccolo passaggio per permettere loro di salvarsi. Era un gesto semplice, forse insignificante nella grande scala dell’ecosistema, ma profondamente umano. Non riuscirono a restare fermi, a ignorare la sofferenza.
Ogni volta che incontro episodi del genere mi torna in mente la stessa domanda: che cos’è, esattamente, questa forza che ci spinge a provare empatia anche quando non ce n’è alcun vantaggio, quando nessuno ci guarda, quando si tratta di esseri che neppure possono ricambiare?
Non voglio dire che l’essere umano sia buono per natura. Sappiamo bene che dentro di noi convivono anche l’egoismo, la violenza, la paura, l’indifferenza. La storia, e perfino la vita quotidiana, ce lo ricordano continuamente. E non credo nemmeno all’idea che nasciamo puri e diventiamo cattivi: chiunque abbia passato del tempo con un bambino sa che i piccoli non sono sempre dolci e altruisti. Anzi, spesso sono diretti, possessivi, determinati a ottenere ciò che vogliono, anche a costo di ferire gli altri. Ma in loro c’è anche una scintilla di autenticità, una spontaneità che con il tempo impariamo a domare, a modulare, a rendere più “socialmente accettabile”.
Eppure, accanto a tutto questo, c’è qualcosa che resiste. Una bontà istintiva, una forma di empatia che non è razionale ma viscerale. È ciò che ci spinge ad aiutare un animale ferito sul ciglio della strada, a parlare con una pianta che cresce sul nostro balcone, a commuoverci per la fine di un film o per la perdita di un oggetto a cui avevamo dato un nome.
La psicologia ha cercato di spiegare questo fenomeno. C’è chi parla di antropomorfismo, cioè la tendenza a proiettare caratteristiche umane su tutto ciò che ci circonda. È un meccanismo cognitivo che ci aiuta a interpretare il mondo, ma anche a sentirci meno soli in esso. Altri studiosi parlano invece di empatia generalizzata, una capacità emotiva che si estende ben oltre il confine della nostra specie. In entrambi i casi, ciò che emerge è un tratto profondamente umano: la necessità di entrare in relazione.
E forse è proprio questo il punto.
Essere umani significa cercare legami, anche laddove non dovrebbero esistere. Significa vedere un frammento di vita anche in un oggetto, un’anima anche in un gesto meccanico. Non si tratta di ingenuità, ma di una forma di intelligenza emotiva che ci definisce, che ci rende capaci di compassione, di immaginazione, di speranza.
Ogni volta che mi capita di vedere storie come queste, non posso fare a meno di pensare che, nonostante tutto, non abbiamo perso la nostra umanità.
In un mondo che spesso sembra dominato dalla freddezza, dalla competizione e dall’indifferenza, continuiamo a dimostrare che dentro di noi c’è una forza più profonda, una luce che ci spinge verso la cura, verso la connessione, verso la vita.
È una luce fragile, certo, ma resiste.
E finché continueremo a provarla, finché continueremo a dare un nome ai nostri piccoli robot o ad aprire un varco nel ghiaccio per salvare dei pinguini, potremo ancora dirci, nel senso più pieno del termine, umani.